Jozef Gabcik

(Poluvsie, 8 aprile 1912 - Praga, 18 giugno 1942)

Ho guardato negli occhi il mostro. Mi ero addestrato per farlo. Avevo ripetuto azione su azione nel nostro campo in Scozia. Tutto doveva funzionare come un orologio.

Eravamo stati paracadutati a dicembre per ucciderlo. Uccidere l’uomo della conferenza di Wannsee che aveva pianificato la soluzione finale del popolo ebraico era la nostra missione. Reinhard Heydrich era davanti a me. Ucciderlo era un nostro dovere e un nostro diritto. Era il mio dovere, ma il mitra si inceppò.

Il suo viso. L’aria di Praga. Lo sguardo del maestro quando sbagliavo il compito. Mio padre. La ragazza alla fermata del tram. L’automobile. Tutto s’era fermato. Anche il mio cuore. Poi Jan Kubis gettò la bomba e per il Boia fu la fine. Cinque mesi di attesa in un attimo. La bomba che esplode, il mio mitra che s’inceppa, l’auto che rallenta, il nervosismo dell’attesa, la corsa in bicicletta, la sigaretta dopo colazione, aprire gli occhi e dirsi “Oggi è il giorno. Oggi lo uccidiamo”, il letto caldo, il sonno tranquillo. Non c’era stato il tempo nemmeno per la paura. Lo avevamo fatto noi, ma era come se lo avessero fatto tutti.

Era la prima volta che nel cuore dell’Europa un capo nazista veniva ucciso. Volevamo che capissero che per loro nessun luogo sarebbe stato sicuro. Che per i loro delitti prima della giustizia di Dio ci sarebbe stata la giustizia degli uomini. Nessun perdono per i nazisti. La loro vendetta fu terribile. Rasero al suolo un intero villaggio per vendicare Heydrich. Poi iniziarono a cercarci. Ci eravamo nascosti in una cripta. Qualcuno parlò e fu la fine. Volevano prenderci vivi, ma non ci riuscirono. Due battaglioni di SS circondarono la chiesa. Provarono a farci uscire con il fumo. Provarono con l’acqua. Tutto inutile. Eravamo dei soldati. La missione era compiuta. Il Boia era morto. Il loro meccanismo perfetto si era inceppato. Ucciderlo era un nostro dovere e un nostro diritto di uomini. Tenemmo l’ultima pallottola per noi.