Hilde Coppi

(Berlino, 31 maggio 1909 - Berlin-Plötzensee, 5 agosto 1943)

Mio figlio si chiama Hans e l’ho avuto in carcere, quello di Barnimstrasse a Berlino. Mi hanno fatto partorire, me lo hanno fatto allattare e poi mi hanno uccisa. Hanno aspettato che io finissi. Poppata dopo poppata. Ero condannata a morte, ma allattare era un mio diritto di madre. Il potere è sempre stupido e preciso. Le regole naziste non ammettono eccezioni. L’apparenza prima di tutto, soprattutto quando la sostanza è sangue ed ignoranza. Anche mio marito è stato ucciso. In carcere. Prima di me. Suo figlio non lo ha mai visto. E io ho continuato a scrivergli, perché nessuno mi aveva informato della sua morte. Si sarà vergognato l’uomo della censura che leggeva quelle lettere? Non credo: pensava di fare solo il suo dovere. Ed è anche contro queste follia quotidiana e vigliacca che mi sono ribellata e che ho messo in gioco la mia vita. Contro questo nazismo tranquillo di centrini e soprammobili. Timbri e raccoglitori. Un nazismo che fa più paura dei panzer e delle sfilate, perché entra nel cuore e nella testa. Perché è fatto di gente normale come quella che ci ha tradito. Gente che forse non si è nemmeno sentita troppo in colpa. Noi eravamo la “Rote Kapelle” l’Orchestra Rossa. Passavamo ai sovietici informazioni su quando e dove colpire. Facevamo paura, perché dimostravamo che non tutti erano sfilate e centrini. Non tutti i tedeschi erano uguali. Non tutti i tedeschi erano nazisti. Facevamo paura, perché dimostravamo quanto i nazisti fossero deboli nella loro vuota ferocia. Per questo ho voluto un figlio, per questo sono stata orgogliosa di allattarlo. Rispondere alla morte con una nuova vita. Un’altra imprevista eccezione alle loro stupide regole.
Mi chiamo Hilde Coppi. Facevo la segretaria.